mercoledì 8 luglio 2015

SCHIAVITÙ moderna, un affare da 150 miliardi di dollari


Stime da 20 a 36 milioni di persone.

di Roby Noris

(Editoriale - Caritas Ticino Rivista - nr.2 - luglio 2015)

http://www.caritas-ticino.ch/media/rivista/archivio/riv_1502/riv_2015_R2_index.html

http://www.caritas-ticino.ch/media/rivista/archivio/riv_1502/Noris_Roby_editoriale_R2_2015.pdf


A ricordarlo è Mira Sorvino, attrice hollywoodiana, protagonista nel 2005 del film Human Trafficking (rivista nr 2 luglio 2007 e rivista nr 4 dicembre 2011), 



diventata ambasciatrice dell’ONU per la lotta alla schiavitù, traffico di esseri umani, in un servizio (scritto e video) della CNN, del 24 giugno 2015 che fa rabbrividire riportando alla ribalta il dramma del traffico di esseri umani, schiavi moderni, che tocca un numero impressionante di paesi, dall’India alle Filippine, dalla Thailandia al Brasile, dal Nord Corea alla Somalia. Le stime variano da 20 a 36 milioni di persone.

E negli stessi giorni mi è capitato di vedere uno stralcio di un documentario francese sulla prostituzione infantile in Madagascar, che in sintesi diceva: la povertà e la mancanza di prospettive fanno sì che solo i turisti bianchi siano la fonte di sussistenza, la prostituzione è quindi per molte bambine l’unica forma di sopravvivenza. Tutti lo sanno, dai politici alla polizia, agli organismi sociali, tutti deplorano ma non c’è niente da fare.

Mi colpisce sempre questa tragedia umana moderna, che sembra normale, ineluttabile, cioè “non c’è niente da fare”, e mi chiedo se la storia un giorno non si chiederà perché questo sia avvenuto sotto gli occhi di tutti. Come lo sterminio di milioni di ebrei, di dissidenti e di “diversi”, operato dai nazisti sotto gli occhi di tutti.

Mira Sorvino mi è particolarmente simpatica perché sfrutta la sua notorietà come elemento positivo per veicolare azioni, giudizi e iniziative contro il traffico di esseri umani. Una lotta impari che, prima di avere i limiti imposti dai pochi mezzi di fronte all’immensità del fenomeno, deve fare i conti con la mancanza dei riflettori mediatici accesi a pieno regime. In altri termini la nostra generale indifferenza; ma perché il traffico di esseri umani non ha mai le prime pagine? Un po’ come succede col tema della fame nel mondo: si sa che c’è ma poiché si pensano cose diverse sui mezzi per farla sparire allora non succede granché (vedi articolo a pag 12). Siccome non possiamo piangere continuamente sulle stesse tragedie, pena l’assuefazione e poi l’indifferenza, i media si adoperano per cambiare periodicamente il programma dei drammi umani da mettere sotto i riflettori. Ecco allora che uno Tsunami con migliaia di turisti occidentali coinvolti diventa un affare colossale che dura mesi: senza turisti occidentali non sarebbe stato nelle headline delle TV mondiali per più di tre giorni.

Ancora per un po’, avremo i riflettori sui migranti del mare (vedi art. pag.10), perché il Mediterraneo è vicino, perché i profughi interrogano l’Europa intera e Brussels non sa che pesci pigliare, l’Italia fa un po’ di spettacolo politico, ma alla fine si cita Gaddafi che gestiva arrivi e partenze dei potenziali migranti africani, e adesso che non c’è più è il caos totale. E voglio ricordare anche i “Perseguitati dell’ISIS” che ormai sono mediaticamente inesistenti, ma che a milioni sono ancora tutti lì nei campi profughi. Ma non fanno più notizia e quindi non se ne parla più. I meccanismi della comunicazione di massa funzionano così anche se ci sono milioni di persone attente e attive per costruire un mondo migliore e molti lottano strenuamente contro il traffico di esseri umani.

E come sempre è una questione di pensiero.
È appena uscito il film “Woman in gold” con Helen Mirren, magnifica interprete di una ebrea scampata all’Olocausto che lotta perché l’Austria riconosca che il famoso quadro di Klimt (titolo del film) è stato sottratto dai nazisti alla sua famiglia.
Interessante nella tesi del film è la forza devastante del politically correct, cioè che un quadro del valore di centinaia di milioni possa spostare la verità dei fatti - cioè il quadro di Klimt apparteneva a una famiglia ebrea di Vienna a cui è stato confiscato dai nazisti - su un piano politico di relazioni internazionali. Solo la caparbietà di un giovane avvocato di origine ebree, nipote del compositore Schoenberg, riuscirà a rimettere la verità al suo posto. Non è solo un film, è storia, quindi a volte l’happy end c’è anche nella realtà.