martedì 24 febbraio 2015

QUI SI PARLA SOLO DI BUSINESS



QUI SI PARLA SOLO DI BUSINESS



Tra Business, economia e carità evangelica, quanta confusione.
(Art che apparirà sulla prossima rivista Caritas Ticino n.1 2015)
di Roby Noris


“Qui si parla solo di Business” è una frase pronunciata senza mezzi termini da un membro di comitato di una grossa organizzazione umanitaria svizzera dopo una mia presentazione dell’attività di Caritas Ticino. Non mi ha fatto piacere ma in fondo « niente di nuovo sotto il sole », anche se ormai dovrebbe essere chiaro, almeno per gli addetti ai lavori, cosa sia la differenza fra Business e Social-Business. Ma se non è chiaro per quelli che hanno tutte le informazioni, figuriamoci cosa possa essere la confusione per gli altri. Quindi vale la pena di riprendere queste distinzioni e definizioni fondamentali.
 Caritas Ticino ha scelto da almeno vent’anni la strada dell’autoimprenditorialità sia per la propria sussistenza, in quanto organizzazione che cerca di autofinanziare il più possibile la sua attività sociale, sia come metodo di intervento nei confronti delle persone indigenti che vengono considerate come portatori di risorse e quindi potenzialmente capaci di diventare protagonisti della propria lotta alla precarietà. Social Business è la definizione di Muhammad Yunus, Nobel per la pace e creatore della Grameen Bank, che ha sviluppato il microcredito come possibilità per i più poveri di uscire da quella condizione diventando imprenditori. La sua rivoluzione sta nell’aver « fatto fiducia », cioè nell’aver creduto che povere donne in Bangladesh potessero trasformarsi in soggetti economici produttivi, cioè in imprenditori. Nella ricca Svizzera i concetti  fondamentali su cui fondare interventi sociali ed economici non cambiano, quindi anche qui la difficoltà, come in Bangladesh sta nel credere che anche chi è messo male, ha difficoltà, ha un handicap, ha fallito vari tentativi, è comunque e sempre portatore di risorse, cioè, come diceva il Vescovo Corecco, « è molto più del suo bisogno » e quindi non deve essere definito e considerato come « mancante » di qualcosa ma come portatore di un potenziale. Il cambiamento di prospettiva rispetto alla posizione tradizionale centrata sul bisogno e quindi sul trovare mezzi per colmarlo, è gigantesca, direi epocale, perché rovescia completamente il modo di guardare la persona indigente e il nostro modo di porsi nei suoi confronti. Se guardando una persona etichettata come povero, vedrò prima di tutto il suo lato positivo, cioè le sue risorse e le sue capacità potenziali, tanto per cominciare sorriderò di fronte alla speranza che si sviluppino e diventino risolutive; per contro se sposo la lettura tradizionale assistenzialista, considererò quella persona come una vittima dell’ineluttabile, un fallito  che da solo non potrà mai farcela e che solo io, « ricco », potrò tirare fuori dall’indigenza. Una forma soft, ben mascherata di delirio di onnipotenza. Purtroppo in area cattolica, ma ancor più in quella protestante americana, è vincente questa concezione dell’altruismo e in fondo della dimensione della carità distorta in un processo a senso unico, dove l’indigente è sempre solo oggetto passivo, incapace di diventare soggetto attivo, mentre il benefattore, il filantropo, ha il potere di tirar fuori dai guai la vittima indigente. E di come il filantropo sia capace di produrre ricchezza da distribuire ai poveri non si vuol sapere nulla per non essere contaminati dal demone del Business e dell’economia. In se il filantropo è generalmente una persona buona e sinceramente desiderosa di fare del bene: l’errore - o la distorsione - sta invece nel modello di intervento che, siccome non coinvolge il povero nel processo economico produttivo,  è inefficace e figlio di un pensiero ammalato, anche se il filantropo è in buona fede e non lo sa.
Qui non si parla solo di Business ma di Social Business.